Oltraggio a Trondheim

Da quando Le Roi Platini decise di svincolare la sede fissa della Supercoppa Europea da Monaco, scelta formalmente atta a consentire a piccoli paesi di ospitare una kermesse tale, ma di fatto orientata ad aumentare il consenso di questi ultimi nei confronti di Michel, abbiamo visto un gigantesco spettacolo itinerante susseguirsi anno dopo anno. E’ dal 2013 che il Principato non detiene più il monopolio, ora condiviso anche da venue meno calcisticamente rilevanti quali ad esempio Repubblica Ceca, Galles, Georgia e Norvegia. L’ultima tappa del viaggio, dopo Eden Aréna di Praga, Cardiff City Stadium e Boris Paichadze di Tbilisi, si chiamava dunque Trondheim. Si può eventualmente discutere sulla decisione propagandistica di voler offrire uno spettacolo come la Super Cup a più paesi possibili, ma in ogni caso non cambia la sostanza. Kolossal come Barça-Siviglia 5-4 sono qualcosa di misticamente favoloso. L’essenza del calcio.

Primissima in Norvegia – Il Lerkendal Stadion di Trondheim è la casa del Rosenborg BK e, manco a dirlo, è stato il primo impianto norvegese ad ospitare una finale europea. A lato dell’omonimo fiordo, il Trondheimsfjord, bagnato dal fiume Nidelva, consiste a grandi linee nel solito grande esempio di panorama nordico mozzafiato: poca luce durante il giorno, tanto freddo, venti gelidi e clima rigido. Tutto normale, in fondo si trova a due passi dal Circolo Polare Artico. Qui è stata giocata la 41° Supercoppa UEFA della storia, la terza consecutiva in cui si affrontano due spagnole: Real Madrid e Siviglia. Le merengues reduci dal trionfo di Milano ai danni dello sfortunatissimo Atlético, i rojiblancos artefici dello storico tris di Basilea ai danni del Liverpool. Due anni prima, nel 2014, fu ancora roba loro: ancora il Real, ancora uscito vincitore in un derby (a Lisbona), ancora il Siviglia aiutato dalla maledizione di Guttmann in quel di Torino, con buona pace del Benfica. Fu 2-0, a Cardiff, con Cristiano Ronaldo decisivo con una doppietta. Una bella rivincita sarebbe stata il top.

Sevillismo applicato, corretto col bielsismo – Passare dalla chioma del basco Unai Emery alla pelata del santafesino Sampaoli è stato uno shock: quando però dopo tre anni vincenti il tecnico aveva deciso di lasciare cedendo alle lusinghe del Psg, Monchi optò per un sostituto simile e diverso. Simile per la mentalidad, per l’ossessione a far bene, per il sacro culto del lavoro anche a scapito di focalizzar mente e corpo al 100% sulla causa della squadra. Diverso per il gioco, sicché il 4-2-3-1 verrà spesso rivisitato con un pizzico di spregiudicato bielsismo, naturalmente condendo il tutto con buone dosi di follia e servendo un piatto dal sapore deciso. Dopo Torino, Varsavia e Basilea, tre trionfo di seguito, si era rotta la coppia che aveva tenuto unito il mundo sevillista nonostante la partenza di vari cardini (Rakitic e Bacca i primi che mi vengono in mente). Spazio dunque a Sampaoli, che nel 2016 rivoluzionò la squadra: via Krychowiak, Gameiro, Immobile, Llorente, Beto, Banega, Reyes, ecco un esercito di mezzepunte (Vazquez, Correa, Kiyotake, Ganso, Nasri, Sarabia), qualche attaccante mobile (Vietto, Ben Yedder), alcuni prospetti argentini (Kranevitter, Mercado) e Sirigu tra i pali.

Omaggio a Coke – Si era presentato più o meno tranquillo, Jorge, in conferenza stampa: maglia rigorosamente rossa, muscoli in bellavista, occhiali neri e tatuaggi mostrati con orgoglio. L’esatto opposto di Zidane, perfetto prototipo del vincente quasi altezzoso e poco avvezzo a nient’altro che sconfini dal suo elitario modo di trabajar. In ogni caso, mentre il Real si allenava in modo galactico dando spettacolo con tocchi di fino, il Siviglia correva sul prato di Trondheim salvo fermarsi solo per esporre uno striscione dedicato all’ex capitano trasferitosi allo Schalke 04 e infortunatosi gravemente (rottura parziale del legamento crociato): “Tú nos llevaste a Trondheim, tu fuerza nos hará ganarla. Ánimo Coke”. La doppietta del terzino destro fu infatti decisiva, il 17 maggio al St. Jakob-Park.

Epilogo, triste Canta solo il Real, il Siviglia è Mudo: con queste parole si consumava il sottile giochetto dei titolisti sulla Gazzetta dello Sport. Il giorno dopo, verrà messa a referto una forte delusione per un popolo sevillista che dopo tre finali vinte non era più abituato ad assaporare la triste sconfitta. Due anni dopo sarebbe stato interessante chiedere a Vicente Iborra un commento a caldo, lui che anche nel 2014 vide i blancos alzare il trofeo. Senza Ronaldo, questa volta, con varie assenze (anche Kroos e Bale out) ma non per questo meno drammaticamente: il colpo di testa di Ramos è stato assestato ancora una volta quando tutto pareva ormai indirizzato verso la festa rojiblanca, pazienza se al posto dell’Atléti ci fossero i Nervionenses. Passato in vantaggio con un preciso arcobaleno scagliato dal sinistro di Marco Asensio, volto certamente nuovo del Madrid nonché uomo-copertina del prepartita, il Real era riuscito nella mirabile impresa di farsi rimontare: prima un bolide di Franco Vázquez, Mudo ma decisivo su quel prato, poi un rigore trasformato con freddezza dall’ucraino Konoplyanka. Specie il primo, arrivato dal Palermo, è stato uno di quelli che hanno sofferto meno il passaggio alle idee sampaoliste: una sorta di Valdivia, volendo paragonar l’italo-argentino ad un volto che in Cile faceva parte della spedizione campione di Sudamerica per la prima volta nella sua storia. Il rigore è stato procurato da una gran serpentina sgusciante del canario Vitolo su servizio di Vázquez, peraltro. E senza Vietto in campo, corpo estraneo all’amalgama rojiblanco che ha cominciato a funzionare una volta tolto l’ex Villarreal, Zidane restava calmo. Zizou ha tirato fuori tutti i suoi assi dalla manica (Benzema, Modric e James) ed è stato salvato dal solito puntuale cabezazo di Ramos. Ai supplementari, poi, un Siviglia piegato dalla fatica e definitivamente atterrito dal rosso a Kolo aveva solo più da giocare col cronometro per portare la sfida ai rigori. Non ce l’hanno fatta per un soffio, dopo un saggio di lucha y trabajo impressionante. Hanno eretto un muro praticamente a secco, rendendolo impermeabile fino a quando Carvajal non si è inventato l’azione personale della vita, con tanto di slalom manco fosse su un paio di sci e fendente a trafiggere Rico. Era il 119′, e la difesa madrilena si era ormai prepotentemente candidata al ruolo di mvp in quella nottata di Trondheim. Dove il vento era gelido, le nuvole cariche di pioggia e il Siviglia tristemente pieno di rimpianti.

Post scriptum – Concedetemi un piccolo sfogo personale. Il Sevilla ci è andato vicinissimo: l’ambizioso credo sampaoliano avrebbe previsto alla vigilia una partita vissuta ad alti ritmi, non lasciando giocare i ragazzi di Zidane. Ce l’hanno fatta nonostante un importante gap tecnico, arrendendosi solo alla psicologia e ad un terribile uno-due con pari di Ramos all’ultimo e espulsione di Kolo in pochi minuti. Forse è stato 4-2-3-1, forse ancora 3-4-2-1, in ogni caso non sono i numeri che dipingono Sampaoli. Anche perché i suoi hanno cambiato posizioni di continuo, spingendo, arroccandosi quando serve ma evidentemente ancora lenti ed imprecisi nei movimenti. Col senno del poi l'(unico) anno di Jorge a Siviglia ci ha regalato spettacolo. E buonanotte da Trondheim, dove lo scorso anno è stato consumato un vero e proprio oltraggio.

Real Madrid (4-3-3): Casilla; Carvajal, Varane, Ramos, Marcelo; Kovačić (dal 72′ J. Rodríguez), Casemiro, Isco (dal 66′ Modric); L. Vázquez, Morata (dal 62′ Benzema), Asensio. All: Zidane
Siviglia (3-4-2-1): Rico; Pareja, Carriço (dal 51′ Rami), Kolodziejczak; Mariano, Iborra (dal 74′ Kranevitter), N’Zonzi, Vitolo; F. Vázquez, Kiyotake; Vietto (dal 67′ Konoplyanka). All: Sampaoli
Reti: 21′ Asensio, 41′ F. Vázquez, 72′ rig. Konoplyanka, 90’+3 Ramos, 119′ Carvajal. Ammoniti: Carvajal, Asensio, J. Rodríguez (R), Vitolo, Kolodziejczak (S). Espulso: Kolodziejczak al 94′. Arbitro: Mazic (Serbia)

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