Michael Owen, la parabola del Golden Boy

Se il modo del calcio fosse diviso soltanto tra campioni e perdenti, Michel Owen si collocherebbe esattamente nel mezzo. Non è facile capire perché un golden boy dal così grande talento non sia riuscito a compiere il definitivo salto di qualità pur avendo le carte pienamente in regola: infortuni a parte, che lo hanno tormentato soprattutto nella seconda parte della sua vita sportiva, la sua controversa carriera assomiglia molto ad una parabola discendente, che porta con sé una scia di tradimenti e fallimenti che hanno segnato indelebilmente la vita di un uomo che sarebbe potuto diventare un vero e proprio eroe per il calcio inglese.

Era il 1991 quando il dodicenne Michael fece di Liverpool la sua casa: i trascorsi nelle giovanili e l’esordio nel mondo dei grandi condito da un gol ad appena 18 anni facevano presagire un grande futuro per lui, un attaccante dal fisico minuto e dal viso ancora da bambino, così piccolo in quella divisa troppo grande che però portava con orgoglio e coraggio. Dopo il flop dell’Europeo del 2000 causato dal primo dei tanti infortuni che avrebbero costellato la sua carriera, il giovane Owen riuscì a rialzare la testa giocando la migliore stagione della sua vita e una delle più vincenti per il Liverpool: quell’anno riuscì a sollevare al cielo ben cinque trofei (Charity Shield, FA Cup League Cup, Coppa Uefa e Supercoppa Europea), portando la sua fama alle stelle grazie alla super partita disputata in finale di FA Cup contro l’Arsenal, ricordata come la “Michael Owen Cup final”, in cui riuscì a ribaltare lo svantaggio con una strepitosa doppietta a poche manciate di minuti dal triplice fischio.

Insomma, il nuovo secolo che non era sicuramente cominciato con il piede giusto aveva preso una piega totalmente inaspettata e vincente, tanto da permettere a Owen di incidere a fuoco il suo nome tra gli storici vincitori del Pallone d’Oro ad appena 22 anni, un trofeo meritate nonostante le polemiche che continuano ad aleggiare intorno a quell’edizione che avrebbe potuto portare alla gloria (tra gli altri) anche il nostrano Francesco Totti. D’altronde Michael è un vero e proprio predestinato, un uomo a cui la sorte ha deciso di lastricare la strada d’oro fin dalla tenera età, quando con la maglia del Mold Alexandra cucita addosso riuscì a battere il record di gol nel campionato scolastico del Galles settentrionale siglandone ben 92, 13 in più di un certo Ian Rush, altro giocatore transitato da quelle parti.

La sorte però spesso decide di metterti alla prova, giocandoti tiri mancini che possono comprometterti un’intera carriera, come nel caso del nostro giovane Michael. La conquista del Pallone d’Oro non passò di certo inosservata e il Real Madrid decise di fare un’offerta allettante al Liverpool: per 25 milioni di euro il golden boy si preparava a compiere il salto di qualità in una delle migliori squadre del mondo che avrebbe potuto finalmente offrirgli la possibilità di scrollarsi di dosso il titolo di giovane talento per conquistare quello di campione.

L’aria di Madrid però non fece affatto bene ad Owen, messo sul mercato dopo appena un anno senza diritto di replica, rimpiazzato dall’arrivo di Robinho e Julio Baptista. Nonostante il passo falso però il grembo materno dove era cresciuto e maturato lo aspettava ancora a braccia aperte: tutti a Liverpool chiedevano a gran voce il suo ritorno, la Kop era pronta a perdonare il suo addio per riaccogliere il figliol prodigo che avrebbe avuto l’onore di vedersi concessa una seconda chance dal club che di li a poco sarebbe salito sul tetto d’Europa vincendo la Champions League nel 2005. Il prezzo del Real Madrid però era troppo alto per le casse dei Reds e a farsi avanti fu il Newcastle: a Owen non restava altra scelta che indossare la casacca dei Magpies, forse malvolentieri, ignorando ciò che il suo cuore desiderava davvero. Il suo ritorno d Anfield da avversario non fu di certo una passeggiata, dato che ogni suo passo era scandito da cori e fischi assordanti, ma il peggio fu che appena cinque giorni dopo la sfida da grande ex la carriera di Owen colò letteralmente a picco a causa di due grandi infortuni subiti nel giro di poco più di un anno. Dopo il primo stop di quattro mesi il ginocchio tornò a farsi sentire, impedendogli di mettere piede sul campo da gioco per oltre un anno. La sua carriera era irrimediabilmente condizionata per sempre e Michael si accorse che forse era troppo tardi per staccarsi l’etichetta di giovane promessa per consacrarsi come campione. Quando il Newcastle retrocesse in Championship l’unica grande occasione concessagli fu quella del Manchester Unted: dato che le porte del Liverpool gli furono chiuse in faccia da Benitez (come rivelerà lo stesso attaccante a distanza di anni), Owen fu quasi costretto ad accettare il contratto contro i rivali di sempre, facendo schizzare l’odio fra i due club ai massimi livelli, tant’è che dalle parti di Anfield comincia a diffondersi il coro “once a manc, never a red”, come ad indicare una fedina calcistica ormai macchiata da una tonalità di rosso diversa da quella del Liverpool, un errore imperdonabile da quelle parti anche per un giocatore che in tre anni ha disputato appena 31 partite.

Il golden boy non diventerà mai un grande campione, nonostante i grandi numeri ed il talento cristallino: il ragazzino dalla divisa troppo grande che illuminava tutta Liverpool con le sue giocate è soltanto il lontano e vago ricordo di un uomo che ha appeso le scarpette al chiodo tormentato dai ricordi e dalle scelte, consapevole che forse la sua permanenza nel Merseyside sarebbe riuscito a fare di lui un campione indiscusso. E, proprio alla vigilia della sfida fra Liverpool e Manchester United, è doveroso ricordare la parabola discendente di un giocatore che avrebbe potuto sollevare il mondo con una sola mano, ma che riuscì soltanto a dividere ancora di più due squadre troppo belle e vincenti per essere così vicine.

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