Non c’è bisogno di ricordare a Chivu cosa significhi vincere con la maglia dell’Inter. Eppure, a scanso di equivoci, glielo ricorderanno gli 80.000 di San Siro. Glielo diranno coi cori, con gli applausi, con quel rispetto che si deve agli eroi
Cristian Chivu è stato un signore in campo. Uno di quelli che, se dice una cosa, sai che la pensa davvero. Quando in conferenza prepartita ha parlato dell’Inter come di una squadra per cui nutre affetto, rispetto e gratitudine, nessuno tra noi ha alzato un sopracciglio. Perché Chivu è uno di famiglia. Uno che ha messo la faccia (e pure la testa, col caschetto) in battaglie epiche, culminate in quel 2010 che non smetteremo mai di celebrare — a costo di sembrare nostalgici, ma chi ha fatto la storia può permetterselo.
Il suo Parma è una bella realtà della Serie A, e va detto: ha sorpreso per organizzazione, intensità, e una certa sfrontatezza che sembra specchio dell’uomo in panchina. Ma sabato al Meazza, l’unica intensità che conta sarà la nostra. E sfrontato, con l’Inter attuale, non può permettersi di esserlo nessuno.
Non c’è bisogno di ricordare a Chivu cosa significhi vincere con la maglia dell’Inter. Eppure, a scanso di equivoci, glielo ricorderanno gli 80.000 di San Siro. Glielo diranno coi cori, con gli applausi, con quel rispetto che si deve agli eroi. Ma una cosa deve essere chiara: sabato si gioca per lo scudetto, per la conferma di un dominio tecnico, fisico e mentale che ci porta ad avere più punti di Napoli e più gioco di Juventus e Milan (anche se su queste ultime non c’era bisogno di conferme).
Il Parma farà bene a difendersi. E Chivu farà bene a ricordare che le favole sono belle, ma le corazzate non si fermano con i buoni sentimenti. Perché se in campo scendono Lautaro, Barella, Calhanoglu e Bastoni, gli abbracci vengono dopo. Prima ci sono i tre punti.
Se c’è una cosa che Inzaghi ha insegnato a questa squadra è la fame. Quella che ti porta a non fare sconti nemmeno al tuo ex compagno, al tuo vecchio allenatore, o al tuo amico di mille battaglie. Perché il calcio non è beneficenza, e il campionato non si vince a colpi di nostalgia.
E allora va bene ricordare i bei tempi. Ma sabato serve concretezza. Serve che Thuram continui a spaccare le difese come un batterista jazz spacca il tempo. Serve che Sommer faccia il solito lavoro invisibile, che Acerbi comandi la retroguardia con lo sguardo da sergente, e che Dimarco si ricordi che l’autostrada sulla fascia non prevede limiti di velocità.
Matteo Ferrante stima Cristian Chivu. Lo ha difeso da critiche ingenerose ai tempi della fascia sinistra, lo ha osannato quando serviva, e gli ha pure perdonato qualche ammonizione evitabile. Ma oggi è diverso. Oggi l’Inter è una macchina da guerra e Chivu è — temporaneamente — l’uomo con la tuta sbagliata.
Nessun rancore. Nessun sospetto. Solo una richiesta semplice e chiara: amici sì, ma non facciamo scherzi.
Perché alla fine, come direbbe quel filosofo contemporaneo che risponde al nome di Clint Eastwood: “Ogni uomo deve sapere qual è il suo posto nel mondo.” E sabato, il posto del Parma sarà dietro l’Inter, a guardare — con rispetto — la capolista andare via.
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