Dopo il crollo su tutti i fronti nazionali e con la Champions appesa a un filo, Ferrante guarda avanti: l’Inter deve cambiare, ringiovanire, scegliere. Senza paura
Oggi siamo ancora qui. A prepararci per una semifinale di Champions League contro il Barcellona, il Barcellona vero, quello che ha appena schiantato il Real Madrid nella finale di Copa del Rey e che arriva galvanizzato come mai.
Noi, invece, ci presentiamo a questo bivio della stagione con più cicatrici che certezze. La sconfitta con il Milan in Coppa Italia, il tonfo interno contro la Roma, il sorpasso del Napoli in campionato: in poche settimane abbiamo dilapidato mesi di dominio.
La Champions? È ancora lì, sì. Ma è una missione quasi impossibile. Non impossibile, perché siamo l’Inter, e questa maglia non si inchina mai in anticipo. Ma i segnali, purtroppo, non mentono. E allora è giusto guardare in faccia la realtà: anche se dovessimo cadere contro il Barça, il vero problema è capire come rialzarsi.
E per rialzarsi, servono decisioni. Dure. Necessarie.
In un mondo ideale basterebbe qualche ritocco. Ma noi non siamo nel mondo ideale. Siamo in quello reale, dove abbiamo visto la rosa implodere non appena le gambe hanno smesso di girare come a ottobre.
Per questo motivo, lo dico chiaro:
“Bastoni, Dimarco, Barella, Calhanoglu, Lautaro, Thuram: questi sei sono intoccabili. Gli altri devono essere discussi, valutati, se necessario salutati.”
Chi ha deluso? Troppe riserve, troppe seconde linee non all’altezza. Arnautovic, Correa, Taremi: il tempo dei “compagni di viaggio” è finito. Serve gente che quando entra sposta, non che abbassa il livello.
Serve fame, serve freschezza, serve voglia di scrivere la storia, non solo di partecipare alla festa.
E attenzione: non solo in attacco. Anche a centrocampo, anche dietro. Acerbi, De Vrij, Mkhitaryan: ringraziamenti solenni, ma il calcio non perdona il tempo che passa.
E Inzaghi? Domanda difficile. Difficile anche per me, che lo ho difeso fino a ieri.
Se c’è un allenatore che ha dato identità all’Inter post-Conte, è lui. Se c’è uno che ci ha riportato a dominare in Italia e a essere rispettati in Europa, è lui. Ma se il tracollo di aprile ha radici mentali, allora forse è il momento di porsi domande.
“Non si cambia per cambiare. Si cambia per non morire,” diceva un vecchio adagio che si raccontavano i marinai.
Se Inzaghi avrà ancora voglia, fame, lucidità, bene. Altrimenti, l’Inter deve essere pronta. Perché il ciclo va gestito, non subìto.
L’errore più grande, in estate, sarebbe pensare che si sia trattato solo di sfortuna. Non è stato solo sfortuna. È stato errore di costruzione. Una rosa troppo anziana, troppo corta, troppo fragile. Una società che ha preferito l’usato sicuro all’investimento coraggioso. Basta poco per restare grandi. Basta ancora meno per cadere.
E allora adesso servono decisioni. Senza sentimentalismi. Chi ama davvero l’Inter non vuole una squadra che “se la gioca”. Vuole una squadra che comanda. Che detta il ritmo. Che fa paura.
Il Titanic sta affondando? Forse.
Ma noi, l’orchestra, possiamo ancora cambiare spartito.
Se abbiamo il coraggio di suonare una musica nuova.
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