Pareggio in casa con la Fiorentina, altra partenza molle e troppe ombre in una stagione sempre più compromessa. E Conceição… litiga anche coi pali
Il deja-vu ormai ha la forma di una condanna. A San Siro il copione si ripete: il Milan parte male, va sotto, si aggrappa al talento individuale per raddrizzare il risultato e poi chiude la partita con la sensazione di aver lasciato qualcosa per strada. Contro la Fiorentina è andata esattamente così. Autorete di Thiaw, raddoppio di Kean in poco più di 10 minuti, risalita firmata Abraham, e poi un pareggio di Jovic che lascia il sapore del rimpianto. Perché, ancora una volta, le rivali per il quarto posto corrono e il Milan resta lì, impantanato nelle sue insicurezze.
È come se questa squadra avesse perso il senso del tempo. Insegue quando dovrebbe dominare, reagisce quando dovrebbe costruire. Il primo tempo contro la Viola è stato l’ennesimo esempio di un Milan molle, svagato, scollegato tra i reparti. Una squadra che somiglia più a un gruppo di solisti in cerca d’autore che a un’orchestra capace di suonare insieme.
Se il campo non restituisce certezze, il clima intorno non aiuta. Le immagini della lite tra Sergio Conceição e Yunus Musah, con parole grosse volate e facce tese, sono lo specchio di una tensione latente che rischia di esplodere. Il tecnico portoghese si è calato nel mondo rossonero come un personaggio di un film di Lars von Trier: cupo, magnetico, ma difficilmente compatibile con l’ambiente.
Conceição vive il Milan come se fosse un laboratorio di disciplina, ma quello che gli serve è un progetto. O almeno una direzione. Invece sembra imprigionato tra dirigenti che non si capisce bene chi siano — e cosa vogliano — e una squadra che fatica a riconoscere la sua leadership. Zlatan Ibrahimovic osserva tutto dall’alto, ma la sua presenza è più simbolica che realmente operativa. E in tutto questo, il rischio è che lo spogliatoio si spacchi per davvero.
A tener su la baracca, ancora una volta, sono stati i soliti noti. Abraham ha trovato un gol che vale l’ennesimo tentativo di risalita. Reijnders ha dato muscoli e geometrie. E Leão, pur tra pause e sbuffi, resta l’unico capace di accendere la miccia anche quando tutto sembra spento. Ma affidarsi solo all’estro dei singoli è il modo più corto per fallire.
La verità è che il Milan non ha un’identità. Non si sa se sia una squadra che vuole costruire dal basso o ripartire in velocità, se voglia essere offensiva o attendista, se sia più vicina a quella di Pioli o a un’idea nuova. Perché nuova, per ora, non è. E le rimonte, per quanto romantiche, non costruiscono futuro.
I tifosi lo sanno. San Siro mormora, commenta, si spazientisce. Il pareggio con la Fiorentina, più che una battuta d’arresto, è il segnale che la corsa Champions si è complicata. Il Milan non è fuori, certo. Ma è fuori fase. Fuori sincronia. E in un campionato dove Lazio, Bologna e Roma spingono come treni, non puoi permetterti di rallentare proprio ora.
“Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, scriveva Tolstoj. E questo Milan è infelice in modo profondamente rossonero: tra grandezza passata e un presente che non si capisce mai dove voglia andare. Per costruire una nuova storia, serve azzerare tutto e ripartire. Ma bisogna farlo in fretta, perché la prossima stagione non aspetta.
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